CISA-IKAR: IL CONVEGNO DELLA COMMISSIONE MEDICA

Lo scorso ottobre, a Dobbiaco, si sono riuniti più di 60 medici provenienti da tutto il mondo per discutere casi clinici e novità riguardanti il soccorso in montagna

Di Giancelso Agazzi

 

Dal 18 al 22 ottobre 2023, ha avuto luogo a Dobbiaco l’assemblea annuale della Cisa-Ikar.

I 63 partecipanti provenivano da varie parti del mondo: Argentina, Canada, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Giappone, Inghilterra, Norvegia, Nuova Zelanda, Scozia, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera.

Dopo un primo incontro precongressuale, il 19 ottobre alle ore 8 si è riunita la commissione medica.

Per primo ha preso la parola il presidente John Ellerton, subito dopo vi sono state due presentazioni l’una, tenuta daxxxxx per ricordare Michael Swanguard, medico del soccorso canadese, l’altra, curata da Giancelso Agazzi per un tributo al medico svizzero Oskar Bernhard. È, poi, intervenuto l’inglese John White del Mountain Rescue of England and Wales per parlare di “Prevention of psycological stress in SAR organisations”. Il relatore ha raccolto 18 studi effettuati sull’argomento in otto differenti nazioni, principalmente gli Stati Uniti. Di questi, tre riguardavano la coesione sociale. Le strategie di prevenzione si sono basate su: coesione sociale, programmi di training sulla resilienza, gestione dello stress, educazione psicologica, esercizio fisico e debriefing. Sono stati usati questionari e scale di valutazione. L’esercizio e la coesione sociale si sono dimostrati le più promettenti strategie di tipo preventivo nella sindrome post traumatica da stress (PTSD) e nello stress psicologico. I benefici dell’esercizio fisico sulla salute fisica e mentale sono supportati dalla letteratura raccolta. Tra i limiti: scarsa qualità dell’evidenza ed esiguo numero dei campioni raccolti. È importante promuovere la cultura del wellbeing e la fiducia negli aspetti organizzativi. Serve far aumentare la trasparenza e responsabilizzare i volontari, facendo crescere la loro consapevolezza. Importante il ruolo dei programmi di training.

Roger Mortimer ha parlato di “Psychological First Aid for Responders”. Tra i rischi da prevenire: i problemi di salute mentale (depressione, borderline PD, ansia) in seguito a incidenti di tipo cumulativo, o a processi di immedesimazione nell’evento drammatico (avrebbe potuto capitare a me). Tra gli effetti della resilienza: una forte coesione e il supporto reciproco all’interno di un gruppo. Per curare lo stress da incidenti critici (CISD): intervenire immediatamente, avere un quadro della situazione, facilitare i rapporti sociali. Il CISD è diventato negli anni ’80 e ’90 un componente popolare della gestione dello stress. Tra gli interventi di aiuto psicologico: non causare danno, rassicurare, tranquillizzare, comunicare in maniera efficace, infondere speranza.

Allison Sheets, medico dell’Americam Mountain Rescue (MRA) del Colorado, è intervenuta con una presentazione dal titolo “Reccomendations for stress resilience in alpine rescue”. Comprendere l’esposizione allo stress e la formazione dei danni causati, gli effetti derivanti e i fattori di rischio dovrebbero far parte del training medico. Le varie organizzazioni di soccorso dovrebbero preoccuparsi di promuovere un metodo per favorire la resilienza e la comunicazione in ogni team di soccorso, prima, durante e dopo un intervento. Un’organizzazione efficiente dovrebbe ridurre l’esposizione allo stress, fornendo un supporto e preoccupandosi dei programmi di istruzione. Dopo ogni missione è importante il ruolo del debriefing per sottolineare eventuali criticità, anche utilizzando questionari (traumatic exposure protocol, traumatic stress questionnaire).Professionisti della salute mentale devono lavorare in stretto contatto con i team di soccorso. Allison ha sottolineato il problema legato alla diversità dei linguaggi utilizzati; è opportuno usare lo stesso linguaggio. Wellbeing is everyone’s responsibility.

 È seguita la presentazione dal titolo “Prospective study of Avalanche Deaths- a complete overview of the rescue Chain” a cura di un gruppo di medici francesi: François Albasini, Marc Blancher, L. Krebs-Drouot, F. Huot, L. Richard, F. Jarry. Lo studio, iniziato nel 2014, ha registrato ogni vittima di valanga che ha avuto la necessità di un intervento medico sul luogo dell’incidente e ha incluso il follow up in ospedale. Tra le principali lesioni provocate da valanga: fratture, contusioni, abrasioni cutanee, trauma toracico, distorsioni, lussazioni, traumi addominali. Tra gli indicatori di qualità l’aderenza alle raccomandazioni, i debriefing regionali, il feed back, la valutazione dei disturbi causati dallo stresso post-traumatico. È stato creato un data base, comprendente le cause di morte (ipotermia, trauma, asfissia), e l’impatto dell’ambiente (densità della neve, tipo di terreno, condizioni atmosferiche). È stato previsto un approccio di tipo forense (autopsia, TC, esami istologici, tossicologici, biochimici). Esiste una collaborazione con ANENA (Association Nationale pour l’étude de la neige et des avalanches), che raccoglie dati dal 1970-71 e con altre risorse (PGHM, CRS, ski patrol). Sono previsti studi prospettici e il miglioramento degli indicatori di qualità, della conoscenza, dei messaggi di prevenzione e del decision making.

Mike Green ha parlato di “Performance of a chemical heat blanket (CHB) in dry and wet conditions inside a mountain rescue hypothermia wrap”. Il CHB può essere attivato nello zaino e può funzionare per 7 ore all’interno di una coperta e in un ambiente umido. Gli abiti umidi non compromettono in modo significativo il CHB, mentre indumenti molto umidi possono attenuare la produzione di calore.

È seguita online la presentazione dal titolo “Spinal cord protection & splinting in mountain rescue-development session” a cura di Jason Williams, paramedico e di Darryl Macias, medico di emergenza della New Mexico University, che hanno parlato dell’aggiornamento delle raccomandazioni, risalenti al 2009, riguardanti i traumi della colonna vertebrale riportati nel corso di incidenti in montagna, in particolare rivolte ai primi soccorritori. In un futuro non troppo lontano verranno riesaminate le vecchie e le nuove raccomandazioni messe a punto dalla Cisa-Ikar e dalla WMS (Wilderness Medical Society).

È seguita una relazione di Christopher Van Tilburg della Mountain Rescue Association di Portland (USA), dal titolo “Terminating CPR in mountain rescue”. Il focus è stato quello di riassumere i criteri utilizzati per determinare la morte, definendo quanto oggettivamente possa aiutare in questo difficile lavoro; discutere le eventuali criticità; fornire raccomandazioni su come procedere nel momento in cui diventa necessario ricorrere alla rianimazione cardiorespiratoria (CPR). La CPR si utilizza di frequente in caso di trauma, asfissia dovuta a travolgimento da valanga, ipotermia, annegamento. Tra le cause di arresto cardiaco, che può avvenire in presenza o assenza di testimoni: traumi, ipotermia, immersione in acqua fredda, asfissia causata da seppellimento in valanga, infarto del miocardio. In caso di ipotermia si ottengono i migliori risultati utilizzando la CPR intermittente. Va verificato se esiste la diponibilità di un mechanical chest compressor.

Mario Milani, medico del CNSAS, ha parlato di “Occupational accidents among search and rescue providers during mountain rescue operations and training events: a 21 years national retrospective analysis”. Lo studio è stato realizzato tra il 1999 e il 2022 in Italia per raccogliere tutti i casi di incidente capitati ai volontari del Corpo Nazionale del Soccorso Alpino e Speleologico, compresa un’analisi diversificata degli incidenti occorsi durante le operazioni di soccorso (41%) e durante le esercitazioni (59%). Sono stati analizzati 868 casi, con una media di 37,3 casi per anno. Nel 96% dei casi sono stati registrati dei traumi. Il 4% degli incidenti che hanno avuto per vittima i soccorritori è stato determinato da cause mediche o ambientali. Nel 94% si è trattato di lesioni lievi-moderate. Incidenti mortali sono accaduti nel 2% dei casi (1954-2023). I dati sono stati raccolti in base ai report forniti dalle compagnie di assicurazione.

La giapponese Kazue Oshiro, cardiologa di Sapporo, appartenente alla Association for Mountain Medical Rescue of Japan, ha parlato di “Causes of death and characteristics of non-survivors rescued during recreational mountain activities in Japan between 2011 and 2015: a retrospective analysis”. Scopi del progetto: individuare le cause e le caratteristiche di morte dei non sopravvissuti, migliorare l’efficienza del soccorso e le possibilità di sopravvivenza. I dati sono stati raccolti in modo retrospettivo dai report del soccorso in montagna. La percentuale di mortalità è del 12%. Le morti sono state 737, di queste 548 sono state ritenute idonee per la raccolta dati. Le principali cause di morte sono state: traumi, ipotermia, arresto cardiaco, travolgimento da valanga, annegamento, stroke. La percentuale di sopravvivenza all’arrivo del soccorso: trauma (5,2%); ipotermia (4,9%); incidenti cardiovascolari (1,4%). La percentuale di sopravvivenza tra i sopravvissuti all’arrivo dei soccorsi è pari al 3,5%. Un intervento veloce in caso di trauma è dirimente. Il riconoscimento e l’inizio precoce della fase di riscaldamento di un soggetto ipotermico, con l’assistenza del dispatcher center, può avere una grande valenza nei casi di ipotermia.

Ken Zafren, medico di Anchorage, Alaska, ha presentato due casi di caduta in crepaccio, forniti da Gordon Glesbretch, dal titolo “Falling in a narrow crevasse can be dangerous: a tale of two crevasses”. Il primo caso è quello di un pilota di elicottero deceduto in Antartide dopo una caduta per 15 metri in un crepaccio molto stretto. La vittima era poco ferita, ma ipotermica. Il secondo pilota è volato alla Davis Base in cerca di aiuto. Dopo 158 minuti è ritornato con tre soccorritori. La vittima è rimasta nel crepaccio per tre ore in posizione verticale con entrambi gli arti al di sopra della testa. Urlava ed era cosciente al momento dell’estrazione. Un soccorritore si è calato nel crepaccio, ha dovuto capovolgersi per aiutare la vittima a uscire servendosi di una corda e di una cinghia avvolta attorno al braccio destro in prossimità del gomito e dell’ascella. Uscito dal crepaccio il pilota era incosciente, con difficoltà respiratorie. Il recupero è durato un’ora. Un soccorritore, a bordo dell’elicottero, ha praticato la rianimazione cardio-respiratoria intermittente nel corso dei 39 minuti di volo verso la Davis Base. La temperatura corporea transesofagea era di 24,2°C. Sono stati effettuati un riscaldamento esterno con aria forzata, un’infusione endovenosa di soluzione salina (tre litri), un lavaggio caldo endovescicale, un’intubazione, una ventilazione con ossigeno riscaldato e umidificato. Dopo 18 ore la temperatura del core era di 32°C, senza segni di vita. In seguito il paziente è stato dichiarato morto. Non aveva significative lesioni esterne o interne. Causa di morte un arresto cardiaco provocato dall’ipotermia. Al momento dell’incidente il pilota non era adeguatamente vestito.

Il secondo caso è quello di un uomo di 38 anni caduto in un crepaccio durante la discesa, slegato, lungo i pendii di neve sotto il campo 1 sul Kahiltna Glacier. Durante l’attraversamento di un ponte di neve a 2330 metri è caduto per 20 metri in un crepaccio. Si trovava in posizione verticale con uno zaino incastrato a livello delle spalle. Poteva respirare, ma non poteva fare alcun movimento. Dopo 20-30 minuti una guida è stata calata nel crepaccio senza riuscire a recuperare la vittima. L’elicottero di soccorso è arrivato, invece, in un tempo più lungo del previsto a causa del cattivo tempo. Anche un ranger è stato calato nel crepaccio, senza a sua volta poter raggiungere la vittima. Il ranger non riusciva a respirare, quindi è stato fatto uscire dal crepaccio. Per circa 12 ore la vittima ha chiamato ripetutamente aiuto e, poi, ha perso conoscenza dopo 12 ore. Sono stati utilizzati vari sistemi per cercare di raggiungerla: fiamma ossidrica, motosega, antifreeze, acqua bollente. Alla fine il ranger ce l’ha fatta, rompendo il ghiaccio con una piccozza, agganciando una corda al sacco dell’alpinista. Quest’ultimo era incosciente, in ipotermia severa e con un respiro agonico, ma, dopo circa due ore e mezza, ha ripreso conoscenza e rispondeva agli stimoli verbali. Dalla caduta erano trascorse 16 ore. L’infortunato è stato posto all’interno di una tenda e riscaldato con una coperta termica (chemical heat pack). Dopodiché è stato trasportato in ospedale in elicottero, in maniera sufficientemente corretta da evitargli l’arresto cardiaco. Il volo verso l’ospedale di Fairbanks è durato 40 minuti. La temperatura all’interno della vescica alle 18 era di 26,1° C. Il paziente è stato ricoverato nel reparto di terapia intensiva (ICU) e sottoposto a emodialisi. È stato dimesso dopo 14 giorni. Ha ripreso ad arrampicare. Di fondamentale importanza, quando si tira fuori una vittima da un crepaccio stretto, farla passare il prima possibile dalla posizione verticale a quella orizzontale.

Christopher Van Tilburg, medico della Mountain Rescue Association (USA) di Portland, ha presentato una relazione dal titolo “Ketamine intramuscolar” nel trattamento del dolore acuto in luoghi remoti. Il farmaco funziona, se iniettato per via intramuscolare, dopo 10-15 minuti dalla somministrazione e dopo 3-4 minuti per via endovenosa. La sua emivita è di 10-15 minuti, raggiunge il massimo effetto nell’arco di non più di 30 minuti e viene metabolizzato a livello epatico. Tra le controindicazioni: ipersensibilità o allergia, storia di abuso. Si deve agire con cautela in caso di CVA, scompenso cardiaco o dopo interventi chirurgici alle alte vie respiratorie. Tra i possibili rischi: sedazione dissociativa, depressione respiratoria, ipertensione e tachicardia, stato di agitazione, allucinazioni, delirio, aumentata secrezione di saliva che può portare a un laringospasmo.

Kyle Mclaughlin, medico di Canmore, Canada, medical director of Parks Canada Mountains Rescue, ha presentato il progetto “Rescue at very high altitude”, nato per fornire raccomandazioni e linee-guida per le missioni di soccorso effettuate in altissima quota e che coinvolge ventidue operatori sanitari e dieci nazioni.

John Ellerton, presidente della Commissione Medica della Cisa-Ikar, ha parlato di “Mountain events in hot weather”. Nel 2009, 55 runners sono stati ricoverati presso il Field Hospital con una temperatura corporea superiore a 41°C con una disfunzione cognitiva ed episodi di delirio, transitori nella maggior parte dei casi. Alla “Great North Newcastle”, la più grande mezza maratona del mondo, hanno partecipato oltre un milione di persone nel corso di 42 edizioni. Si sono registrati 14 decessi, dovuti a sfinimento, di 4 nell’edizione 2005. Le patologie provocate dal calore non sono sempre considerate. A volte vengono effettuati trattamenti dannosi o formulate false diagnosi. In ogni soggetto che presenta uno stato di coscienza alterato andrebbe misurata la temperatura del core. Con l’innalzarsi delle temperature si prevede per il futuro un incremento delle malattie causate dal calore (Exertional Heat Illness). Sono collegati alla “Heat Illness” edemi, rash cutanei, crampi, sincopi, episodi di sfinimento, deplezione di elettroliti e glicogeno plasmatici. Il colpo di calore (Heat Stroke) compare oltre i 40°C di temperatura corporea. È molto importante la misura della temperatura corporea. Fin dalla prima avvisaglia di uno sfinimento da calore, anche se ancora con temperatura corporea e stato mentale normali, la persona va accompagnata all’ombra, in una zona fresca e possibilmente ventilata, ricorrendo a uno spray di acqua fresca o tiepida e somministrando per via orale liquidi con elettroliti. In caso di colpo di calore conclamato occorre effettuare un rapido raffreddamento e il rapido trasporto in ospedale, monitorando la temperatura corporea. Vietata la somministrazione di antipiretici.

Giacomo Strapazzon, direttore dell’Istituto di Medicina di Emergenza dell’Eurac di Bolzano, ha presentato l’incidente del ghiacciaio della Marmolada, accaduto il 3 luglio 2022, con undici morti e sette feriti, dovuto all’effetto dei cambiamenti climatici. In questi casi la sicurezza per i soccorritori è la massima priorità. La valutazione della sicurezza è a carico del SAR, delle guide alpine, dei geologi, del Servizio Valanghe e dei meteorologi. Essenziale il coordinamento di elicotteri e droni. La comunicazione via radio e la collaborazione tra i vari team di soccorso sono di fondamentale importanza, usando canali predefiniti. Si deve utilizzare un linguaggio comprensibile da tutti. Anche la leadership e l’identificazione e il tracciamento dei pazienti sono molto importanti, come pure la stesura di un documento scritto. Il planning e il training sono indispensabili. Si deve imparare dall’esperienza, da quanto già accaduto in passato.

 

21.01.24