La spedizione italiana all’Everest 1973

Sono passati cinquant’anni

Giancelso Agazzi

 

Chomo-Lungma, la montagna sulla vetta della quale vive la Dea-Serpente: questo è il vero nome del Tetto del Mondo, del terzo polo. I nepalesi lo chiamano “Sgarmatha” “alto nel cielo”.

Il ricordo della spedizione italiana all’Everest compare sul bollino della tessera CAI del 2023.

La spedizione venne raccontata da Guido Monzino nella pubblicazione ufficiale “La spedizione italiana all’Everest 1973”, stampata nel 1976. Il nome ufficiale era “Italian Everest Expedition ‘73” (IEE), una spedizione alpinistica e scientifica. Fu l’ultima delle 21 ideate e condotte da Monzino.

Monzino effettuò nell’autunno del 1969 un viaggio in Nepal, nelle valli del Khumbu con alcune guide alpine di Valtournanche. Si concesse una pausa dopo aver organizzato e diretto spedizioni alpinistiche extra-europee, compresa l’ultima, sofferta spedizione al Polo Nord.

Il permesso richiesto per salire l’Everest giunse con una rapidità inaspettata, nonostante le molte nazioni in lista d’attesa, alla vigilia della spedizione polare.

L’idea iniziale di Guido Monzino di coinvolgere nell’impresa le guide alpine italiane e il sodalizio del CAI non venne condivisa. Non potè contare sulle guide alpine di Valtournanche che lo avevano accompagnato nelle sue precedenti imprese: non intendevano o non potevano ripartire oppure non erano più gradite.

La spedizione venne considerata un’esercitazione militare collettiva, inquadrata tra le manifestazioni previste per il primo centenario delle Truppe Alpine. L’allora ministro della Difesa onorevole Mario Tanassi sostenne e promosse il progetto. Il generale comandante della Scuola Militare Alpina di Aosta Silvio Barbi si adoperò per invitare rappresentanti delle Forze Armate e i Corpi Armati dello Stato, compresi gli Incursori della Marina. Il generale Antonino Anzà, sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito, rappresentò un validissimo supporto durante l’allestimento della spedizione, seguendone lo sviluppo in qualità di diretto responsabile per le Forze Armate. La spedizione venne, comunque, dedicata al primo centenario della Sezione del CAI di Milano. Il senatore Giovanni Spagnolli, presidente generale del CAI, espresse interesse per la spedizione e concesse il patrocinio del CAI. Mirko Minuzzo aderì da subito all’iniziativa, propugnando a oltranza a oltranza l’dea dell’Everest. Lui e il giovanissimo Rinaldo Carrel, future guide del Cervino, sarebbero stati i primi italiani in vetta all’Everest.  La consulenza del professor Rodolfo Margaria, fisiologo dell’Università di Milano, consentì di fruire del più valido apporto intellettuale ai fini della realizzazione del progetto. Il professor Paolo Cerretelli impostò il piano definitivo di valutazione fisiologica, clinica e psicologica dei candidati presso l’Istituto di Fisiologia dell’Università di Milano e presso il Centro Studi e Ricerche di Medicina Aeronautica e Spaziale dell’Aeronautica Militare. Cerretelli si avvalse della collaborazione degli assistenti Giuseppe Miserocchi e Giovanni Sassi, di Antonio Veicsteinas, di Franco Romagno, di Gennaro Orlando e di Riccardo Diamante. Presso il Campo Base venne allestito un laboratorio che permise di studiare le reazioni dell’organismo all’ipossia attraverso continui controlli, esami ed esperimenti effettuati sui singoli partecipanti. Il centro medico, collegato via radio ai vari campi, fu di grande aiuto nei momenti più difficili.

Lo Sato Maggiore dell’Esercito si impegnò per la ricerca dei candidati, che avvenne in tempi molto brevi.

Il 5 e il 7 maggio 1973 cinque alpinisti italiani e tre nepalesi raggiunsero gli 8848 metri della vetta dell’Everest. La spedizione aveva come meta la vetta dell’Everest, da raggiungere lungo il percorso definito della “via normale” o del Colle Sud. L’impresa è stata diretta da Guido Monzino, con la partecipazione di 63 italiani e oltre 100 Sherpa d’alta quota, gli effettivi realizzatori dell’impresa. Il vecchio albergo Posta-Lina di Cervinia, che aveva visto nascere e rientrare tutte le spedizioni organizzate da Guido Monzino, fece da base durante il lungo periodo di pianificazione della spedizione, con l’allenamento e l’acclimatazione in alta quota. Vi venne organizzato un corso accelerato che fornì tutte le istruzioni preliminari più utili e pertinenti. Tutti i componenti sottoscrissero il “regolamento” della spedizione, un esplicito patto di amicizia e dedizione, un impegno morale a bene operare. Le attività si alternavano ai continui accertamenti di tipo sanitario. Impegnativa fu la pianificazione dello stivaggio per il trasporto a spalla dei vari materiali necessari a montare il Campo Base e i Campi Alti. I portatori e gli Sherpa non potevano trasportare carichi superiori ai 30 chilogrammi.

 Furono necessari circa 2000 portatori e 200 yak per trasportare i materiali vari (circa cento tonnellate) fino al campo base della montagna. Occorsero due settimane per imballare tutti i materiali da trasferire a Lukla. La località venne raggiunta da Kathmandu grazie all’utilizzo di velivoli monoelica del tipo “Pilatus”. Erano trascorsi vent’anni dalla prima salita della montagna da parte di Edmund P. Hillary e Tenzing Norgay, avvenuta il 29 maggio del 1953 alle 11,30 del mattino. Critiche vennero fatte nei confronti della spedizione a proposito della eccessiva dispendiosità. Lo stesso Edmund Hillary si espresse in modo negativo affermando:“si tratta di una esercitazione militare che non ha nulla a che fare con l’alpinismo…” e ancora”hanno raggiunto la vetta del ridicolo”, disgustato dalla eccessiva prodigalità.

Nove Hercules C-130 della 46^ Aerobrigata  dell’Aeronautica Militare (i primi decollarono il 15 gennaio, gli ultimi atterrarono a Kathmandu il 7 febbraio 1973, concludendo il ponte aereo), partiti dall’aeroporto di Cameri, hanno fatto la spola tra Italia e Nepal, trasportando  uomini e materiali (equipaggiamenti, attrezzature scientifiche, viveri e bombole di ossigeno), compresi tre elicotteri Agusta Bell 205 dell’Aviazione Leggera dell’Esercito, denominati “Italia 1 “, “Italia 2” e “Italia 3”. Era la prima volta che gli elicotteri volavano sulle montagne himalayane. L’elicottero denominato “Italia 1”, pilotato dal dal capitano Paolo Landucci di Viterbo e dal sergente maggiore Nicola Paludi della Scuola Militare Alpina di Aosta, stabilì il 1° aprile il record assoluto di volo in altitudine, atterrando a 6500 metri, presso il Campo II con a bordo un carico di 100 chilogrammi e 300 libbre di carburante. Il 17 aprile si schiantò sul ghiacciaio a 6400 metri, 200 metri sotto il Campo II a causa del maltempo, durante una missione per soccorrere tre persone affette da diarrea. Non vi furono danni ai due piloti. Solo uno dei tre pazienti si ferì, riportando la frattura di un braccio. I resti del velivolo vennero recuperati solo nel 2009 grazie all’”Eco Everest Expedition 2009” di Dawa Steven Sherpa e Apa (lo Sherpa che detiene il record di scalate dell’Everest), un progetto sostenuto del WWF per ripulire un patrimonio ambientale sempre più minacciato dall’inquinamento. L’impiego degli elicotteri fu oggetto di polemiche. Qualcuno ne sottolineò la palese violazione della più elementare etica alpinistica, ma va riconosciuto che la spedizione non avrebbe raggiunto il Campo Base senza l’intervento dei velivoli.

Quarant’anni dopo il figlio Guido di Nicola Paludi volle ripercorrere il ruolo del padre e di tutta la spedizione da Cameri a Kathamandu, realizzando un filmato con foto e filmati dell’epoca intitolato “Everest 1973. 40 anni dopo: il tempo della memoria”. Gli elicotteri furono di aiuto durante lo sciopero dei portatori della valle del Khumbu, a causa delle cattive condizioni meteorologiche, che rischiò di far fallire la spedizione. Il loro impiego, oltre a risolvere in modo tempestivo difficoltà organizzative, agevolando gli spostamenti, avrebbe offerto maggiori garanzie di pronto intervento nei casi di urgenza per eventuali salvataggi di feriti o ammalati gravi. Alcuni casi di edema polmonare si risolsero prontamente grazie all’intervento dei velivoli. I materiali della spedizione dovettero essere trasportati dai 2800 metri del Campo di Lukla ai 5360 metri del Campo Base.

La spedizione venne ideata, voluta e guidata da Guido Monzino, esploratore, alpinista, organizzatore e mecenate.

Fu il capo spedizione, con compiti di rappresentanza e di direzione generale. Si avvaleva della collaborazione dell’Ufficiale di Collegamento del Regno del Nepal capitano Ambika, del Direttore dell’Ufficio Stampa capitano Fabrizio Innamorati, del Direttore della Tesoreria capitano Pier Luigi Marconi, del Direttore del Nucleo Elicotteri colonnello Ruggero De Zuani e di tre assistenti, maggiore Aranda, cileno, la guida alpina Mirko Minuzzo, l’aspirante guida Rinaldo Carrel. Vennero nominati tre vice-Capo Spedizione: avvocato Piero Nava per gli affari generali, direttore alpinistico (Climbing leader), colonnello Giuseppe Pistono per la direzione operativa e professor Paolo Cerretelli, allora uno dei più autorevoli studiosi di fisiologia umana, per la direzione scientifica e sanitaria. Dall’avvocato Piero Nava dipendevano il direttore sei servizi generali (Pasang Gjaljen Lama), dai quali, a loro volta, dipendevano il direttore degli Sherpa (Lhakpa Tenzing), affiancato dal Vice-Direttore degli Sherpa (Gialjien Sonam). Dal colonnello Giuseppe Pistono dipendevano il Direttore del Personale (capitano Roberto Stella), il Direttore Logistico (capitano Alessandro Molinari), il Direttore dei rifornimenti e dei trasporti (sottotenente Massimo Cappon), il Direttore degli equipaggiamenti e dei materiali (dottor Gioachino Gobbi, che rinunciò all’ultima ora), il Capo Nucleo delle Telecomunicazioni (maresciallo Sergio Cappelletti). La consulenza del professor Rodolfo Margaria, fisiologo dell’Università di Milano, consentì di fruire del più valido apporto intellettuale ai fini della realizzazione del progetto.

Partecipò alla spedizione, arrivando fino a Lukla (2848 m.), rifiutandosi di salire sull’elicottero (dopo l’incidente). Tra i criteri e metodi per la selezione dei partecipanti alla spedizione: determinazione del massimo consumo di ossigeno con il metodo diretto a circuito chiuso, determinazione del massimo consumo di ossigeno con metodo indiretto, determinazione dell’acido lattico dopo prova da sforzo, prova di resistenza all’ipossia (tre prove da sforzo su cicloergometro 75, 100, 200 Watt a 3750 metri).

Le prove di controllo sono state effettuate a cura del professor Paolo Cerretelli presso il laboratorio di Fisiologia dell’Università di Milano, mentre le indagini in ipossia acuta sono state condotte nella camera di decompressione del Centro Studi e Ricerche di Medicina Aerospaziale dell’Aeronautica Militare di Roma. La rigorosa selezione e la condotta prudente e non affrettata dell’acclimatazione furono fattori preventivi importanti. In effetti la collaborazione di un numero elevato di specialisti qualificati, fisiologi, medici e tecnici dell’Università di Milano, la disponibilità di attrezzature adatte al funzionamento in condizioni ambientali avverse, l’organizzazione di un efficiente sistema di trasporti hanno garantito, oltre che la necessaria assistenza ai partecipanti all’impresa, la possibilità di realizzare un programma scientifico bene articolato.

 Cerretelli si avvalse della collaborazione degli assistenti Giuseppe Miserocchi e Giovanni Sassi, di Antonio Veicsteinas, di Franco Romagno, di Gennaro Orlando e di Riccardo Diamante.

Dal professor Paolo Cerretelli (cattedra III di fisiologia dell’università di mIlano, 1972) dipendevano l’Istituto di Fisiologia d’alta quota e il Centro Sanitario, presso il quale prestavano la loro opera il dottor Giuseppe Miserocchi, il dottor Gianfranco Briani, il dottor Cesare Arienta e il tecnico Giovanni Sassi.

Presso il campo base venne allestito un laboratorio che permise di studiare le reazioni dell’organismo all’ipossia attraverso continui controlli, esami ed esperimenti effettuati sui singoli partecipanti.

Il centro medico, collegato via radio ai vari campi, fu di grande aiuto nei momenti più difficili.  Compiti del laboratorio furono: sviluppo di determinati temi di ricerca fisiologica, controllo delle condizioni generali e fisiologiche dei vari componenti, la scelta e l’impiego dei respiratori di ossigeno, l’allestimento dei punti di soccorso e di assistenza alle altissime quote. La strumentazione di cui era dotato: metabografo a circuito chiuso, ossimetro auricolare, analizzatore rapido per l’ossigeno, analizzatore rapido per anidride carbonica, complesso di microelettrodi per determinazione di PO2, PCO2 e pH, cicloergometro, scalino regolabile, cardiotacometro, metronomo, spettrofotometro, centrifuga, micropipette, reagenti, microscopio e camere di Bürker, elettrocardiografo a batteria, spirografi e registratore a penna calda a due canali.

Lo staff medico era costituito da Giovanni Arienta, medico, e Giovanni Sassi, esperto di tecniche fisiologiche, che hanno prestato la loro opera al campo base (5350 m.).

Giuseppe Miserocchi, fisiologo della respirazione, oltre a collaborare ad alcune ricerche sul campo, ha organizzato il servizio sanitario di assistenza in alta quota (campo 2, 6400 m.), campo 3 (7000 m.), salendo fino al campo 4 (7500 m.) per soccorrere la seconda cordata di ritorno dalla vetta.

Gianfranco Briani ha partecipato attivamente alle ricerche (campo base e Lukla e campo 2).

Il materiale medico-chirurgico della spedizione, che ammontava a 250 Kg., era distribuito in 20 cassette autonome. Per la marcia di avvicinamento vennero predisposti 10 sacchetti contenenti farmaci e materiali di medicazione di uso comune ed un’unità chirurgica per eventuali pronti interventi. A Lukla, base del nucleo elicotteri, venne allestita un’unità di pronto soccorso (15% della dotazione), presso il campo base venne impiantata l’infermeria in una tenda (4X4) riscaldata da due stufe a cherosene (ricovero di 4 pazienti) (45% della dotazione). Presso il campo base avanzato (6400 m.) era stata installata un’unità chirurgica con il 40% della dotazione. Piccole unità mediche vennero dislocate in ciascun campo alto. Il centro medico era collegato via radio con tutti i campi e le cordate in azione.

Nel corso della spedizione Cerretelli ipotizzò che il fattore limitante la VO2Max in alta quota si trovasse in periferia, dovuto al flusso sanguigno muscolare, (perdita della capacità ossidativa del muscolo in ipossia cronica) concetto ai tempi rivoluzionario.

Cerretelli studiò i meccanismi del sistema di trasporto dell’ossigeno in alta quota.

Seguirono gli studi sulla struttura muscolare condotti per lo più presso l’Istituto di Anatomia di Berna, diretto da Ewald Weibel.

Elaborò un diario scientifico, descrivendo i risultati degli studi. Nel programma degli esperimenti comparivano studi sugli effetti dell’esposizione all’altitudine oltre i 5350 metri su parametri ematici, respiratori e cardiaci, sul rendimento energetico della prestazione muscolare in soggetti nativi (Sherpa) e in soggetti acclimatati, sull’effetto della massima prestazione aerobica di un subitaneo passaggio, ad alta quota, dalla respirazione di aria ambiente a quella di ossigeno puro e di una rapida discesa (20 minuti) da 5350 a 2850 metri, sull’andamento della gittata cardiaca e dei valori di pO2 nel sangue arterioso e venoso misto durante esercizi submassimali, sull’andamento della frequenza cardiaca durante esercizi submassimali e massimali,  sulle caratteristiche del metabolismo anaerobico dell’acclimatato e sul costo energetico della respirazione nell’acclimatato (G. Miserocchi).

Il corpo di spedizione era costituito da 65 Componenti, tra i quali 54 militari e 11 civili. Il nucleo alpinistico era formato da 33 elementi.

Il programma generale della spedizione prevedeva tre fasi distinte. La prima fase comprendeva l’allestimento del Campo Base avanzato, ovvero il Campo Base II (quota 6400 metri), dotato di un’unità chirurgica, l’allestimento dei Campi Alti III, IV,V, l’allestimento del Centro Deposito Generale al Colle Sud. La seconda fase comprendeva: lo spostamento sperimentale di tutti i componenti del nucleo alpinistico dal Campo Base al Campo Base II, l’avvicendamento dei componenti stessi tra il Campo II, il Campo Base e il Campo e il Centro di Lukla, per recupero fisiologico; lo spostamento dei componenti nei Campi Alti e il loro avvicendamento tra questi Campi e i Campi installati a quote inferiori. La terza fase comprendeva la rilevazione dello “status” psicofisico, contingente, dei  Componenti; la prescelta, obiettiva, dei Componenti per la composizione delle varie cordate; l’aggiornamento costante e coordinato della disponibilità di rifornimenti nei vari Campi Alti e nei Centri-Deposito; la rilevazione continuativa delle condizioni del percorso e di ogni altro fattore naturale, per il giudizio delle difficoltà alpinistiche e l’individuazione dell’itinerario; l’annotazione sistematica delle previsioni meteorologiche secondo i bollettini provenienti da Kathmandu; la valutazione definitiva della situazione generale e specifica che consentisse, nel giorno e nell’ora più opportuna di diramare via radio, contemporaneamente a tutti i Campi, l’ordine finale dell’attacco; la predisposizione di un piano di emergenza. Le principali patologie riscontrate durante la spedizione furono: affezioni dell’apparato respiratorio (rino-faringiti, tracheiti, laringiti), un infarto polmonare, alcuni HAPE (turisti), affezioni dell’apparato cardiocircolatorio (tre collassi cardio-circolatori), affezioni a carico dei vasi venosi (due casi di tromboflebite), patologie da freddo (modesti sintomi di congelamento (1° grado) e uno Sherpa con lesioni di 2° e 3° grado dita mano dx), lesioni da radiazioni: numerosi casi di oftalmia da neve.

Tramite l’uso degli elicotteri è stato possibile ottenere viveri freschi da Kathmandu (frutta, verdura, uova, carne).

Veniva garantito un apporto giornaliero di 4000 kilocalorie giornaliere per ogni componente della spedizione; la cottura degli alimenti avveniva con pentole a pressione.

Particolare attenzione è stata posta alle bevande per evitare la disidratazione.

La dotazione complessiva della spedizione era di 78 bombole americane, 29 erogatori americani con relative maschere e cuffie, 194 bombole francesi, 50 erogatori francesi con relative maschere (modernissime), 60 erogatori notturni con maschere, americani

Dato il minor peso, le bombole francesi era indicate per la salita, mentre quelle americane servivano per l’erogazione notturna e per scopi medici.

Importante fu la scelta del flusso di ossigeno della bombola in relazione all’entità della prestazione.

Il problema più rilevante dell’impiego delle bombole era la manutenzione dei raccordi, che dovevano essere puliti (ghiaccio, pulviscolo). Sull’Hillary Step, nella fase di rientro, Claudio Benedetti esaurì l’ossigeno. Virginio Epis lo salvò passandogli per un momento il suo erogatore. Provvidenziali furono le bombole lasciate sulla cima Sud.

Il professor Cerretelli seguì gli alpinisti via radio dal campo base, dando loro alcune utili indicazioni di tipo sanitario.

La marcia di avvicinamento al Campo Base, iniziata il 13 febbraio, durò oltre un mese, permettendo agli uomini di acclimatarsi in modo graduale alla quota, e terminò il 23 marzo, quando venne montato il Campo Base, dotato di un piccolo ospedale e di un laboratorio di fisiologia di alta quota. Si dovettero affrontare le difficoltà del superamento dell’Ice Fall, la chiave di accesso alla vetta. Il 24 marzo venne effettuata un’ispezione sull’Ice Fall fino a 5700 metri. Venne attrezzata la via con corde fisse e scale in alluminio per poter superare i numerosi crepacci. Il campo I venne allestito a quota 6157 metri. L’11 aprile venne allestito il Campo III a quota 6930 metri. La settimana dopo venne montato il Campo IV a quota 7450 metri. Fu, poi, la volta del Campo V posto a 7985 metri al Colle Sud, la “porta dell’Everest”. Le condizioni meteo avverse ostacolarono i rifornimenti ai Campi IV E V. I 16 alpinisti, scelti personalmente da Guido Monzino, vennero suddivisi in quattro cordate.

Le cordate d’attacco vennero formate con le rappresentanze di tutte le Forze Armate e di tutti i Corpi Armati dello Stato. Il 5 maggio 1973 alle ore 12,39 ora locale raggiunsero la vetta due delle otto cordate che erano state predisposte da Monzino: Mirko Minuzzo, Rinaldo Carrel e gli Sherpa Lakpa Tensing e Sambu Tamang. La seconda cordata giunse in vetta il 7 maggio con Fabrizio Innamorati, Virginio Epis, Claudio Benedetti e lo Sherpa Sonan Gyaltzen. Sull’Hillary Step Benedetti esaurì l’ossigeno, Epis lo salvò passandogli per un poco parte del suo. A causa della persistenza di condizioni meteorologiche avverse, Monzino decise di concludere la spedizione. Le altre due cordate, rimaste in attesa al Campo V fecero rientro al Campo Base. L’impresa si concluse il 28 maggio 1973.

Alla spedizione presero parte gli alpinisti bergamaschi Piero Nava, Mario Curnis, Mario Dotti e Virginio Epis.

È giusto ricordare che tutti i componenti della spedizione avrebbero potuto raggiungere la vetta della montagna. Monzino dovette fare una “scelta politica”, come spesso capita in questo tipo di spedizioni.

Quella di Monzino all’Everest fu l’ultima grande spedizione himalayana di tipo tradizionale e, come in generale tutte le sue imprese, non incontrò mai totali consensi presso il mondo alpinistico d’élite, soprattutto per la larghezza e il dispendio dei mezzi impiegati

Scorrettezze, egoismi, negativi colpi di scena, strascichi giudiziari segnarono in modo negativo la spedizione.

La spedizione ebbe vasta risonanza, soprattutto per gli articoli pubblicati sul Corriere della Sera a firma di un prestigioso giornalista quale Egisto Corradi.

Tuttavia, a parte qualche articolo piuttosto fazioso comparso su Lo Scarpone (all’epoca di proprietà di Monzino), sugli organi ufficiali del CAI non comparve alcun resoconto della spedizione

Il contributo, poi, apparso sulla Rivista Mensile del CAI così concludeva: «il bilancio della spedizione è dunque positivo, anche se resta nell’alpinista l’amaro di quello che si sarebbe potuto fare, o, almeno, tentare e che, invece, non è stato».

Quella di Monzino all’Everest fu l’ultima grande spedizione himalayana di tipo tradizionale e, come in generale tutte le sue imprese, non incontrò mai totali consensi presso il mondo alpinistico d’élite, soprattutto per la larghezza e il dispendio dei mezzi impiegati. Fu anche l’ultima impresa esplorativa di Monzino, che si dedicò poi ad attività in campo agricolo e industriale in Italia e all’estero e a opere di sostegno per le popolazioni del terzo mondo.

Nel 1974, sempre affascinato dal paesaggio del Lago di Como, acquistò e restaurò la settecentesca villa del Balbianello a Lenno, fra Menaggio e Argegno, per farne un grande centro geografico ed esplorativo.

Quando morì, sessantenne come il Duca degli Abruzzi, volle che la villa e il parco annesso fossero donati al Fondo italiano per l’ambiente (FAI).

Guido Monzino volle essere sepolto, con la testa rivolta a Nord, nell’antica ghiacciaia della villa del Balbianello.

 

 

 

Dopo il ritorno in Italia gli alpinisti vennero ricevuti al Quirinale dal presidente della repubblica Giovanni Leone e il 27 giugno 1973 in Vaticano da Paolo VI. Il 2 giugno sfilarono tutti in corteo lungo i Fori Imperiali a Roma. Monzino venne nominato cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana.

 

L’Everest è e sarà sempre una meta estremamente difficile, anche quando si voglia presceglierne la cosiddetta via normale di salita, la via del Colle Sud. La difficoltà dell’Everest non è certo nel suo “grado” alpinistico, non è tanto nell’ostilità delle condizioni meteorologiche, ma è sicuramente nella sua quota: questa procrea infiniti problemi che poche persone possono e sanno risolvere e superare. Qualsiasi preparazione specialisticamente alpinistica ritengano di avere i partecipanti, l’Everest si raggiunge qualche volta soltanto, come dimostra l’ampia storiografia inerente. E si conquista a prescindere da piccozza e ramponi e bombole di ossigeno: se l’uomo che vi è destinato e che vuole e deve affrontarlo è l’uomo davvero più giusto per l’Everest stesso.

                                                                                                                Guido Monzino

 

"Io non definirei quest’enormità una spedizione alpinistica – scriveva Ed Hillary nei diari riportati poi nei database di Elizabeth Hawley – spero che in futuro all’Everest arrivino solo alpinisti in piccoli gruppi. Abbiamo raggiunto il limite del ridicolo. Solo un esempio? Salgono con 8 diversi team d’assalto formati da tre alpinisti, che prima del tentativo vengono portati in volo a Lukla (2500 metri) per recuperare le energie e poi riportati al base (5300 metri) dagli elicotteri".

 

Fonti bliografiche:

 

“Guido Monzino, l’ultimo signore di Balbianello e le sue ventuno spedizioni”, Rita Ajmone Cat, Alberti Libraio Editore, 1997

“La spedizione Italiana all’Everest 1973”, Guido Monzino, 1976

“Everest” Walt Unsworth, Mursia, 1981

“Everest 73, La spedizione Monzino nel diario di un protagonista”, Piero Nava,Nordepress Edizioni,2006